Teurgia - Sugli enti e le sensazioni di potere. Sulle gerarchie celesti e i simboli che vi concorrono.


La percezione degli enti La testimonianza di Ezechiele, riportata nella Bibbia, ci fa capire come il cervello traspone l’esperienza della visione dell’ente in movimento secondo immagini ferme, più familiari a lui e a questo piano d’esistenza. Notiamo soprattutto i numerosi termini che fanno riferimento all’azione, al dinamismo:

“Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. Le loro gambe erano diritte e gli zoccoli dei loro piedi erano come gli zoccoli dei piedi d’un vitello, splendenti come lucido bronzo. Sotto le ali, ai quattro lati, avevano mani d’uomo; tutti e quattro avevano le medesime sembianze e  le proprie ali, e queste ali erano unite l’una all’altra. Mentre avanzavano, non si volgevano indietro, ma ciascuno andava diritto davanti a sé.
Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro fattezze d’aquila. Le loro ali erano spiegate verso l’alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che coprivano il corpo. Ciascuno si muoveva davanti a sé; andavano là dove lo spirito li dirigeva e, muovendosi, non si voltavano indietro.
Tra quegli esseri si vedevano come carboni ardenti simili a torce che si muovevano in mezzo a loro. Il fuoco risplendeva e dal fuoco si sprigionano bagliori. Gli esseri andavano e venivano come un baleno. Io guardavo quegli esseri ed ecco sul terreno una ruota al loro fianco, di tutti e quattro.
Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e  i cerchi di tutt’e quattro erano pieni d’occhi tutt’intorno.  Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Quando essi si muovevano, esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Al di sopra delle teste degli esseri viventi vi era una specie di firmamento, simile ad un cristallo splendente, disteso sopra le loro teste, e sotto il firmamento vi erano le loro ali distese, l’una di contro l’altra; ciascuno ne aveva due che gli coprivano il corpo. Quando essi si muovevano, io udivo il rombo delle ali, simile al rumore di grandi acque, come il tuono dell’Onnipotente, come il fragore della tempesta, come il tumulto d’un accampamento. Quando poi si fermavano, ripiegavano le ali. Ci fu un rumore al di sopra del firmamento che era sulle loro teste.
Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve come una pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembrava essere dai fianchi in su, mi apparve splendido come l’elettro e da ciò che sembrava dai fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore il cui aspetto era simile a quello dell’arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia. Tale mi apparve l’aspetto della gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava.”
(La Bibbia di Gerusalemme, libro di Ezechiele - Visione del «carro del Signore» 1, 4-28)

La raffigurazione che ci facciamo dell’ente dunque, risulterà sempre una nostra proiezione a posteriori rispetto la sua percezione. Una questione problematica, quella del senso allegorico o meno delle visioni angeliche o degli enti in generale, che ha indotto molti in errore, e di cui si occupò Dionigi l’Areopagita:
“E ciò allo scopo che non ci avvenga di pensare par empia ragione, come fa la gente, che le intelligenze celesti e diviniformi siano fornite di molti piedi, di molteplici volti, oppure che siano effigiate secondo bruta natura di bovi o secondo ferino aspetto di leoni, oppure secondo  figura di aquila fornita di ricurvo rostro; così pure plasmate a irsuta generazione di piume come negli uccelli; e non ci avvenga di immaginare al di là del cielo cotali infiammate ruote; e troni materiali per supplicazioni e saluti alla Tearchia, e cotali destrieri sgargianti do colore e alti ufficiali armati di lancia e così via per tutte le altre raffigurazioni quante ne sono tramandate a noi da parte dei sacri Oracoli per sacra finzione, in varietà di simboli manifestanti. È un fatto che la teologia ha fatto largo uso di poetiche raffigurazioni sacre trattando di intelligenze che figura non hanno; e ciò, come si disse, per riguardo al grado della nostra mente; ma la teologia tiene pur conto del connaturale e particolare impeto che conduce in alto la mente, configurando per tale modo alle caratteristiche di questa le Sacre Scritture nelle quali vige proprio questo carattere di coperti accenni atti a portare in alto le nostre menti.
[…] E forse questa crederà che gli iperuranii luoghi siano affollati per cotali sciami di cavalli e di leoni,  e che con canto rimbombante a gloria schiere d’uccelli e d’altri animali e più vili materie frequentino quei luoghi, insomma tutte quelle caratteristiche di cui si compiacciono descrizioni, deflettendo a effetti di novità, di stranezza, di affettività emotiva; descrizioni le quali adducono negli scritturali Oracoli manifestanti identità che, si capisce, sotto ogni rapporto non sono identità.
[…] Ed è questa ragione, che si tende a nascondere per mezzo di ineffabili e sacri enigmi; che si rende inaccessibile alle folle la sacra e recondita verità delle iperuranie menti; è la gnosi, come dicono gli scritturali Oracoli, non è di tutti.”
(Dionigi Areopagita, La gerarchia celeste II, 1-2)

Gli strumenti operativi Dobbiamo tenere bene in conto quale sia il corretto modo di interpretare la percezione degli enti: da una giusta consapevolezza degli enti deriva un giusto approccio operativo, e questo è fondamentale nel nostro percorso di reintegrazione, perché due degli strumenti della teurgia cristiana sono appunto le evocazioni e le invocazioni. Secondo la tradizione Gnostica, Gesù Cristo stesso, nel Pistis Sophia, rimproverò aspramente Andrea e lo mise in guardia da una visione superstiziosa e romantica dell’impianto metafisico esposto nel testo:
«Allorchè Andrea finì di parlare, lo spirito del salvatore si agitò ed egli esclamò: “Fino a quando vi debbo sopportare? Fino a quando mi debbo intrattenere con voi? Tutt’ora non avete compreso e siete ignoranti. Non sapete, dunque, e non capite che voi, tutti gli angeli, tutti gli arcangeli, gli dèi, i signori, tutti gli arconti, tutti i grandi invisibili, tutti quelli [del luogo] di mezzo, quelli dell’intero luogo di destra, tutti i grandi delle emanazioni della luce e tutta la loro gloria, [non capite] che tutti voi insieme provenite da una antica e identica pasta, che tutti voi provenite dalla stessa miscela?».
(Pistis Sophia  Libro II, 100-3)

Tutto è Uno, dall’Uno proviene e all’Uno ritorna.
Così gli enti sono la manifestazione dell’Uno fattosi molteplice.
Così, una evocazione sarà uno strumento rituale che andrà ad utilizzare forze discendenti, dall’alto in basso, fino a questo piano di manifestazione. Ecco perché Salomone evocava demoni, enti che più facilmente tendono a manifestarsi nel mondo materiale, per loro natura. Altrettanto famosi sono i grimori della Goetia e il Grimorium Verum, tanto citati da T. Karlsson, che vi ha basato l’operatività della sua Dragon Rouge.

Allo stesso modo una invocazione sarà una tecnica con la quale noi, attraverso la molteplicità, ci avvicineremo all’Uno, ovvero, richiamando in noi stessi l’ente in questione e i suoi attributi li sublimeremo in noi stessi. Quanti più enti vengono in noi richiamati, quanti più archetipi vengo riportati alla luce da dentro noi stessi, tanto più ci avvicineremo alla completezza e alla pienezza dell’Uno. Il meccanismo messo in atto è ascendente perché siamo noi stessi, operatori, che ci innalziamo, protendiamo idealmente verso l’ente.

Nelle tradizioni sciamaniche/tribali l’invocazione è sostituita dalla tecnica della canalizzazione dell’ente nel proprio corpo fisico; alternativa all’evocazione, in senso operativo occidentale invece,  è l’imitazione dell’ente con qualcosa di materiale per sortire un effetto fisico: l’ente viene evocato per imitazione (per esempio: danze della pioggia, rituali voodoo ecc).

Le Chiavi e i nomi di Potere Le chiavi angeliche e i nomi di potere sono immagini e suoni archetipali che raffigurano la “reale forma” dell’angelo o di un altro ente (per quanto si possa parlare di reale e di forma in questo caso), e non rappresentano invece il nome, come potremmo pensare, secondo qualche alfabeto misterioso. Le chiavi angeliche e i nomi di potere sono delle fotografie archetipali, delle istantanee, statiche e bidimensionali, o in forma di vibrazioni sonore, rappresentative di un ente sovra-naturale. E ancora di più capiremmo un sigillo, una chiave angelica o un nome qualora ce la raffigurassimo in MOVIMENTO, o come una continua emanazione sonora.
Per meglio comprendere tutto questo potremmo figurarcelo così: su di un piano superiore le cose non sono, le cose DIVENTANO. Gli esseri che abitano tale piano su più livelli, sono fluidi e pieni, e tanto meno fluidi e tanto meno pieni man mano che ascendiamo verso l’Uno, in quanto esso da molteplice sui piani inferiori, ritorna alla sua singolarità originale. Le chiavi angeliche e i nomi SONO l’ente e gli enti stessi sono simili a movimenti e in forma di movimenti essi esistono .

Se osserviamo le chiavi angeliche o demoniche, se vi meditiamo sul significato capiremo come ogni segno di quella chiave abbia un senso. Sono geroglifici di idee, perché l'ente non pensa, ma è pensiero, ed ogni segno dobbiamo figurarcelo come esistente in costante movimento. Dove abbiamo nella chiave un segno di croce, in quel punto avremo un energia maschile che entra in una femminile; in alcune chiavi potremmo distinguere delle parti che ricordano il simbolo così chiamato “quatre de chiffre”.

Le chiavi dunque sono insiemi di simboli. Ecco perché l'iniziato vi arriva tardi nello studio: dopo aver studiato tutti i simboli singolarmente, può arrivare a comprendere e conseguentemente ad operare con le chiavi; così come il bambino che solo dopo aver studiato il suono, il significato e l'applicazione delle singole lettere, può leggere e scrivere frasi di senso compiuto (“non so leggere né scrivere, so soltanto compitare...”). Le chiavi angeliche sono frasi di simboli, e così gli enti profondamente archetipali a loro connessi sono il risultato di più simboli, e possono aggregarsi tra loro: la fusione degli archetipi. Sono eventi molto più meccanici di quello che sembra.

Quando il Filosofo Incognito in aria scrive il proprio sigillo e la chiave angelica sta plasmando l'ente dinnanzi a sé con la propria essenza. Siamo a livelli di operatività altissima. Tracciare il sigillo equivale ad evocare l'ente corrispondente.

Allo stesso modo quando viene mantralizzato un nome di potere, vi è una vibrazione di fondo, comune a tutti mantra: esso rappresenta il Verbum, o Logos, il suono originario che permea ogni cosa.
I simboli sono dunque movimenti, manifestati in immagini e suoni.

Le parole del rituale: i Salmi e le preghiere generiche Una parola rappresenta un'immagine, un archetipo. Leggerla, equivale ad evocarla.
Una preghiera è un aggregato di immagini equivalente come strumento ad un pentacolo, solo sotto forma discorsiva.
In ebraico vi è una stretta relazione tra le parole e i numeri – le preghiere sono geometrie sacre trasposte in parole.
Sta al teurgo capace la bravura nel concentrarsi e nel suscitare in sé per ogni parola immagini e sensazioni.

Il pensiero e gli enti – illusorietà del pensiero  Mentre eseguiamo il rito, percepiamo chiaramente l'ente non come un essere pensante ma come pensiero.
Durante il rito, se ci sovviene un pensiero, questo, se alimentato cresce, si lega ad altri pensieri in un più grande filo logico, suscitando sempre più timore, angoscia, dolore se il pensiero di partenza era negativo, o sempre più tranquillità, felicità se il pensiero di partenza era positivo. Capito dunque che il pensiero della coscienza individuale e del ragionamento è un atto meccanico da punto di vista metafisico, avendo sperimentato come partendo da un pensiero singolo esso si aggreghi ad altri e cresca come i cristalli di una soluzione satura, ce ne viene che il pensiero dal punto di vista spirituale è illusorio. Fatta esperienza dell'illusorietà del pensiero lo rigettiamo da noi, e ritirandoci in noi stessi, ci rifugiamo nella contemplazione più pura – senza pensiero né sentimento siamo, disillusi: è un canto di gioia e liberazione.

Sensazioni di potere: il pericolo dell’ebbrezza Riguardo quelli che sono i pericoli dell’operatività attraverso gli enti, ho preso atto e non mi sento di aggiungere altro rispetto ciò che ha scritto Iagla, del Gruppo di Ur, sui «patti» con cui ci si lega alle potenze invisibili, nel loro commercio con esse:
Che vi può essere di positivo in cose del genere? In via di principio, ci si può riferire ad una bassa magia avente relazione col mondo delle passioni. La premessa è l’idea, nota ai nostri lettori, che ogni passione umana ha il suo «dèmone», ossia: ciò che nell’uomo si manifesta come passione, esiste anche oggettivamente, come forza super-personale. Tale forza è ubiqua e univocamente qualificata: il dèmone di una passione non ha quella passione, come un uomo che può anche non averla o averne altre – bensì è quella passione, tutto il suo essere è fatto di essa.
Quando un uomo alimenta una passione, il «dèmone» affiora in lui, cerca di mescolarsi alla sua anima come vino ad acqua. Le passioni degli uomini costituiscono la vita dei dèmoni, che se ne nutrono, in senso letterale; e per tal via hanno modo di prender corpo (espressioni comuni, come: «In tale è l’incarnazione dell’odio, dell’amore, dell’avarizia, ecc.» sono spesso di un’esattezza letterale), così come vuole la loro sete. Accendere in sé una passione e aderirvi è, occultamente, evocare: il proprio «corpo di vita» per simpatia entra in rapporto con un dato ordine di vibrazioni e spontaneamente si dispone a strumento per il manifestarsi e l’agire di quel dèmone.
Nulla sapendo della dinamica segreta che agisce negli stati «affettivi» dell’essere umano, tali idee sembreranno ai più stravaganti. Coloro che invece hanno occhi comprendono, su tale base, certe possibilità, che ancor oggi si palesano sporadicamente nella magia delle campagne. Chi brama il soddisfacimento di una sua passione, e a ciò cerca mezzi estranormali, se non ha la «dignità» richiesta per operare con la sua sola forza, ricorre a chi, per la legge stessa del proprio essere, ha tutto l’interesse a che la passione sia soddisfatta: al dèmone corrispondente. Si tratta di trovare un metodo qualsiasi per aprirgli interamente il «corpo vitale»: in questo corpo si stabilisce allora il rapporto con una forza che, essendo libera dalle condizioni del corpo fisico, può mediare varie possibilità estranormali.
I modi di questo contatto possono essere assai varî, persino drammatizzati da apparizioni, apparati cerimoniali, comandi, firme di sangue, ecc. – ma il concetto resta sempre quello ora indicato.
Pertanto il fatto stesso di tale congiunzione nel «corpo vitale» crea un patto e dà un certo significato all’espressione popolare, che il prezzo del patto è un «cedere la propria anima». Non escludendo, anche per questo, la possibilità di drammatizzazioni, che però restano puramente simboliche, il significato è: che il rapporto stabilito nel corpo di vita, specie se «suggellato» con una formula di potenza, costituisce una vera e  propria intossicazione occulta, che tende ad espandersi. La soddisfazione estranormale di una passione la moltiplica fatalmente, appunto perché l’«apertura» che essa ha richiesto ha portato il dèmone dentro la «vita» di quell’uomo in una misura altrimenti non possibile. Così, al limite, si può dire che una simile persona non vive più per sé stessa, ma per colui che essa ha invocato: o si accorge, terrorizzata, dell’«invasamento» della passione che divampa e contro cui essa poco può, essendo quella divenuta una qualità che compenetra la sua stessa vita; ovvero se ne fa lo strumento, così da divenire davvero l’«incarnazione» di un dèmone.
Nel «prendere un’anima», pertanto, non si deve vedere nulla più che l’impulso naturale di una forza che non ha corpo, e brama di averne; che non ha una coscienza, e brama di assumerne una per potersi manifestare su un piano, in una condizione di esistenza, che, in una certa misura, le è precluso. Così di rigore, non si può parlare di una intenzionalità e di «malvagità»: l’azione procede dalla «natura propria» di una certa categoria di esseri incorporei.
Tutto ciò sta, tuttavia, in margine alla «magia nera»”.
(da Introduzione alla Magia, a cura del Gruppo di Ur, Ed. Mediterranee-Roma vol. III cap. VII)

Malgrado questo, per mia esperienza personale, mi ritrovo nelle parole di Maria De Naglowska:
“Che si comprenda questo: io ho amato il Maligno, lo amo ancora, per questo ne conosco il Nome, l’Essenza, l’azione notturna…”
(M. De Naglowska, Rito Sacro dell’Amore Magico)

I legami vanno oltre le scelte, e l’istinto che lega è tale perché conferito per nascita, per natura elettiva.


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